Come reagì il mondo della musica europea di fronte alle immani macerie e ai milioni di morti causati da quella macelleria messicana che fu la Prima guerra mondiale? Sgomento, annichilimento, smarrimento, dolore, costernazione: queste furono le parole d’ordine che impregnarono i sentimenti e le sensibilità dei compositori del vecchio continente, che fecero la conta, dopo il 1918, per capire quanti di loro erano rimasti sulle trincee e sui campi di battaglia senza avere modo di tornare a casa, oltre ad affrontare un concetto di civiltà totalmente diverso, sradicato dalle convinzioni sulle quali si era fondata e si era costruita un’immagine la vecchia Europa.
Particolare, in tale ottica, fu il modo in cui lo fece la cultura musicale francese, la quale, oltre alla guerra e al suo lascito fatto di morte e distruzione, fu costretta a fare i conti con la morte di Claude Debussy, avvenuta otto mesi prima della fine del conflitto e causata da un tumore che non lasciò scampo. Non solo, sei anni dopo a lasciare l’olimpo sonoro transalpino fu il padre putativo della nuova musica gallica, Gabriel Fauré, lasciando di fatto a Maurice Ravel (se non faccio rientrare in questo discorso Erik Satie, è per il semplice fatto che questo geniale compositore è sempre stato di fatto un “cane sciolto”, refrattario a inquadramenti e catalogazioni di sorta) il compito di portare avanti la baracca e facendo sì che la nuova generazione di artisti si potesse confrontare con un vuoto che in massima parte fu colmato dall’irruzione del cosiddetto Gruppo dei Sei, formato da Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey, anche se la storia del gruppo in sé fu di brevissima durata, esattamente dal 1918 al 1923, lasciando che poi ognuno di loro prendesse la propria strada. Ma è indubbio che la ventata di innovazioni stilistiche, unitamente alla portata estetica del loro manifesto, dietro al quale a tirare le fila fu l’onnipresente Jean Cocteau, fu tale che il quadro post-debussyano, sorto in Francia con tinte alquanto fosche, fu rivitalizzato, ponendo di fatto la produzione musicale a un livello qualitativamente eccelso, al medesimo di quello pittorico, che contraddistinse la vita culturale parigina degli anni Venti.
Ovviamente, il Gruppo dei Sei prima e l’attività individuale di ognuno dei suoi appartenenti poi non rappresentarono l’unico cambiamento in seno alla musica francese del primo dopoguerra; semmai questo gruppo vide nascere, attorno e al di fuori di esso, altre figure, altri compositori che intesero intraprendere un cammino post-debussyano, con il risultato di dare vita a opere chiaramente imitative dello stile del padre del simbolismo musicale transalpino, oppure svincolate dalla matrice e dagli stilemi propri del grande musicista nel tentativo di formularne un possibile, autonomo sviluppo.
Una nuova registrazione discografica, pubblicata dalla Stradivarius, riassume, attraverso gli autori proposti e il genere musicale, quello della cameristica, proprio tali intenti; il disco in questione, intitolato Visages, affronta il repertorio francese dell’immediato primo dopoguerra per ciò che riguarda la produzione per il duo viola e pianoforte (con Andrea Cagnin alla viola e Patricia Pagny al pianoforte), prendendo in considerazione autori appartenenti al Gruppo dei Sei, come Darius Milhaud e Arthur Honegger, così come di musicisti che scelsero percorsi del tutto autonomi, quali la geniale Lili Boulanger, sorella minore della ben più conosciuta Nadia Boulanger, Georges Migot e Jean-Jacques Werner (anche se quest’ultimo appartiene più alla contemporaneità che alla storicità novecentesca). La scelta di uno strumento come la viola, nel panorama musicale francese dei primissimi decenni del secolo scorso, deve far riflettere, in quanto questo strumento divenne, per certi versi, il portatore di nuove istanze, di nuove urgenze creative ed espressive, vuoi per la capacità di dare vita ad atmosfere squisitamente intime, grazie alle possibilità esplorative del suo registro medio-grave, vuoi per il fatto che la sua letteratura, ergo il suo impiego, era stato fino a quel momento nettamente inferiore a quello del fratello più celebre e più acuto, il violino.
Per ciò che riguarda i due esponenti del Gruppo dei Sei, Andrea Cagnin e Patricia Pagny hanno voluto presentare di Milhaud i Quatre Visages pour alto et piano Op. 238 (pubblicati nel 1943, ma frutto di un lavoro durato ben sette anni) e di Honegger la Sonate pour alto et piano H 28 (risalente al 1920). I Visages, il titolo del disco non si riferisce solo ad essi, ma intende a mio parere offrire un esempio dei diversi “volti” incarnati in tale sede dalla viola, sono dei brani assai brevi e personalmente li considero una sorta di “applicazione” delle leggi fisionomiche in chiave musicale attraverso l’enunciazione e il possibile sviluppo di temi che si assimilano a caratteri moderni, osservati dall’autore in Europa prima e in America poi. Caratteri che si vanno a fondere con i luoghi nei quali vivono: così se La Californienne mostra un’atmosfera serena e distesa, che richiama probabilmente la dimensione quasi perennemente assolata dello Stato americano in questione, in The Wisconsonian a incidere sul tutto è il passo frenetico, quasi fosse quello di un moto perpetuo. Più elaborati, come la cultura che li incarna, risultato essere La Bruxelloise, intrisa di un intimo lirismo, e La Parisienne, che nel suo dipanarsi mostra dapprima una frizzantezza che poi si ripiega in un accennato rallentando, emblema del bipolarismo esistenziale che cova nella tipicità parigina.
La raffinatezza e, allo stesso tempo, la complessità compositive di Arthur Honegger sono esemplarmente incarnate dalla sua Sonata per viola e pianoforte, la quale si distingue per la capacità di racchiudere e di presentare forme e tecniche appartenenti a tradizioni e correnti musicali diverse, enunciate, in nome di un classicismo che in questo compositore non viene mai meno, attraverso un geniale rigore contrappuntistico. Così, se il primo tempo, un Andante-Vivace, vanta materiale dl tematico prevalentemente atonale e con le prime trentasei battute in cui la viola e il pianoforte si affrontano senza mai suonare assieme, tali da evidenziare un carattere decisamente drammatico e misterioso nell’intero segmento, l’Allegretto moderato che segue, in forma tripartita, incastona un momento di respiro contemplativo. Infine, l’Allegro non troppo conclusivo si apre in modo deflagrante, per poi defluire in una formasonata la cui ripresa vede i due temi presentarsi in ordine invertito.
Il pezzo di Lili Boulanger, Deux Morceaux pour alto et piano, formato da Nocturne (risalente al 1911) e Cortège (1914), fu originariamente concepito per violino o flauto e pianoforte e qui viene presentato in prima assoluta nella versione con la viola; se il Nocturne offre all’ascoltatore atmosfere placide, quasi sospese, in Cortège l’immagine data è quella, per l’appunto, di un corteo emanante allegria e spensieratezza. L’inclusione di un autore contemporaneo quale l’alsaziano Werner, la cui attività compositiva si discosta temporalmente in modo netto rispetto agli altri musicisti presi qui in considerazione, rappresenta la testimonianza di dove siano giunte le propaggini di questa ricerca in Francia tra la viola e il pianoforte. Il suo brano, Kirchberg (composto nel 2014, ossia tre anni prima della sua morte), vanta un carattere decisamente improvvisativo e vuole rappresentare un omaggio alle vigne della sua terra e le sonorità espresse sono fondamentalmente delle immagini allegoriche date dai termini enologici presenti nella partitura.
Considero l’aspetto più interessante di questo progetto la presenza del parigino Georges Migot (1891-1976), un artista a tutto tondo, un autentico umanista capace di dedicarsi proficuamente alla musica, alla letteratura, alla filosofia e alla pittura. Un umanesimo, il suo, intriso di spiritualismo, che entrò fin da subito in contrasto con le emanazioni dell’avanguardia e dei nuovi linguaggi proposti dal primo Novecento; la tradizione che partiva dal Medioevo e dalle polifonie rinascimentali fu il punto ineludibile dal quale Migot attinse per costruire il suo edificio musicale, irrobustito e abbellito dall’ammirazione provata nei confronti di Rameau e Debussy. Proprio quest’ultimo compositore è alla base del primo dei tre brani che il duo Cagnin & Pagny ha voluto inserire nel loro disco: si tratta dell’Introduction per viola e pianoforte, una breve pagina composta nel 1928 come prova di lettura da sottoporre ai candidati per il concorso di viola a Reims e che qui viene presentata in prima registrazione assoluta, così come le altre due di cui andrò a breve a parlare. Fin dal primo ascolto, l’influsso impressionista appare palese, sul quale spicca il tenero lirismo proposto dalla viola. Di trent’anni posteriore è invece la Sonata per viola sola, dedicata alla violista parigina Marie-Thérèse Chailley, pezzo con il quale, pur mantenendosi rigorosamente fedele a quella tradizione mai abbandonata, Migot intese sfruttare tutte le possibilità offerte dallo strumento. Possibilità che vengono esaltate da un piano melodico che predomina senza apparire banale o riduttivo, grazie a un’intelaiatura armonica costruita con brillantezza e rigore. Infine, Estampie per viola e pianoforte, che l’artista parigino trascrisse dalla versione originale per clarinetto e arpa, opera nella quale Migot coniugò la sua idea di tradizione musicale con quella poetica, entrambe di matrice medievale.
Ripensando al titolo del presente disco, la difficoltà primaria che si poteva celare dietro la lettura da dare ai vari autori e ai loro relativi titoli era quella di uniformare il tutto in una maschera tecnicamente ineccepibile, ma espressivamente piatta. Al contrario, i due interpreti si sono distinti per avere dato vita a un’esecuzione decisamente avvincente, sia sul piano tecnico, sia su quello che riguarda la capacità di rendere al meglio le molteplici sfumature. Andrea Cagnin, da questo punto di vista, riesce a evidenziare le peculiarità insite nel DNA di ogni autore affrontato; come cartina al tornasole si prenda la sua lettura di quel capolavoro che è la Sonata per viola sola di Migot (un compositore dannatamente ostico, difficile), la cui continua stratificazione armonica e melodica impone un’assoluta lucidità d’intenti nel saperla restituire appieno. Ebbene, il violista padovano riesce pienamente a formulare, di volta in volta, una lettura in cui la materia sonora, la sua costruzione, basata principalmente su un’ardua verticalità, vengono trasmesse con limpidezza, con un timbro terso, con mistica passione (il côté spirituale nel musicista parigino è sempre presente), così come con visionaria lucidità. Una lucidità, poi, con la quale il nostro violista riesce a radiografare la costruzione armonica che sovrintende la Sonata di Honegger, conferendole autorevolezza, lungimiranza espositiva (il fatto che contenga giustamente il timbro nell’ultimo tempo della composizione senza farsi prendere dalla foga e mantenendosi all’interno di un territorio dove sobrietà emissiva non fa rima con debolezza, lo dimostra appieno), così come nel saper donare la sfumata e dovuta dolcezza che permea quel piccolo gioiello che sono i Deux Morceaux di Lili Boulanger.
Dal canto suo, Patricia Pagny riesce ad assecondare sempre il collega, proponendo un suono pianistico che non mira solo a irrobustire, a puntellare, a sostenere quando la partitura lo richiede, ma anche a circoscrivere debitamente quelle atmosfere, e sono tante, visto che parliamo della scuola francese, che permeano la densità del costrutto musicale. Inoltre, si propone, si delinea, garantendo un suono capace di affrescare, di preparare un terreno che non è solo a vantaggio della viola, ma di tutta la composizione (ascoltate e riascoltate l’Estampie del problematico e affascinante Migot, e vi renderete conto come al pianoforte venga demandato il delicatissimo compito di fornire un’indispensabile prospettiva timbrica con la quale poter materializzare, nelle orecchie dell’ascoltatore, quella “cathédrale non engloutie” incarnata dal brano).
Jan Žáček si è occupato della presa del suono, ottenendo un risultato più che lusinghiero. La dinamica vanta quella velocità e quell’energia richieste per restituire al meglio la vivacità e la delicatezza presenti nelle pagine registrate, senza denunciare colori artificiosi o innaturali. Il palcoscenico sonoro viene ricostruito adeguatamente, con i due artisti scolpiti al centro dei diffusori, il cui spazio fisico presenta una discreta profondità. E se l’equilibrio tonale permette di apprezzare il dialogo e l’eloquio dei due strumenti grazie ai rispettivi registri che si mantengono sempre dettagliati e scontornati, il dettaglio è oltremodo materico, ricco di nero, permettendo di conseguenza un ascolto mai affaticante.
Andrea Bedetti
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5